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DO 21/04/2024

Turno F.A.

Ore 15:00 Biglietti non più disponibili
SA 20/04/2024

Turno L

Ore 20:00 Biglietti non più disponibili
VE 19/04/2024

Turno B

Ore 20:00 Biglietti non più disponibili
DO 14/04/2024

Turno C

Ore 15:00 Biglietti non più disponibili
SA 13/04/2024

Turno F

Ore 15:00 Biglietti non più disponibili
VE 12/04/2024 (Prima)

Turno A

Ore 20:00 Biglietti non più disponibili
Dove:
Opera Carlo Felice Genova

Durata:
Primo e secondo atto: 1 ora
Intervallo: 25 minuti
Terzo atto: 25 minuti
Quarto atto: 30 minuti
Durata complessiva: 2 ore e 45 minuti

 

 

 

 

La bohème

Francesco Ivan Ciampa alla direzione dell’Orchestra e del Coro dell’Opera Carlo Felice nell’intramontabile opera di Puccini

Scene liriche in quattro quadri di Giacomo Puccini
su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa,
dal romanzo Scènes de la vie de Bohème di Henri Murger

Personaggi e interpreti:

Mimì
Anastasia Bartoli
Serena Gamberoni (13, 20)

Rodolfo
Galeano Salas
Alessandro Scotto di Luzio (13, 20)

Marcello
Alessio Arduini
Leon Kim (13, 20)

Musetta
Benedetta Torre
Maria Novella Malfatti (13, 20)

Colline
Gabriele Sagona
Luca Dall’Amico (13, 20)

Schaunard
Pablo Ruiz
Fernando Cisneros (13, 20)

Benoît
Claudio Ottino

Alcindoro
Matteo Peirone

Parpignol
Giampiero De Paoli
Alberto Angeleri (13, 20)

Un venditore ambulante
Claudio Isoardi
Antonio Mannarino  (13, 20)

Sergente
Franco Rios Castro

Doganiere
Loris Purpura

Maestro concertatore e direttore d’orchestra
Francesco Ivan Ciampa

Regia
Augusto Fornari

Scene e costumi
Francesco Musante

Luci
Luciano Novelli

Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova

Orchestra, Coro, Coro di voci bianche e Tecnici dell’Opera Carlo Felice Genova
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Maestro del Coro di voci bianche Gino Tanasini

Direttore allestimenti scenici
Luciano Novelli

Direttore musicale di palcoscenico
Andrea Solinas

Maestri di sala
Sirio RestaniAntonella Poli

Maestri di palcoscenico
Andrea GastaldoAnna Maria Pascarella

altro Maestro del Coro
Patrizia Priarone

Maestro alle luci
Lorenzo Tomasini

Maestro ai sopratitoli
Simone Giusto

Aiuto del Maestro del Coro di voci bianche
Enrico Grillotti

Responsabile archivio musicale
Simone Brizio

Direttore di scena
Alessandro Pastorino

Vice Direttore di scena
Sumireko Inui

Responsabile movimentazione consolle
Andrea Musenich

Caporeparto macchinisti
Gianni Cois

Caporeparto elettricisti/cabina luci
Marco Gerli

Caporeparto attrezzisti
Tiziano Baradel

Caporeparto audio/video
Walter Ivaldi

Caporeparto sartoria, calzoleria, trucco e parrucche
Elena Pirino

Assistente alla regia
Laura Ruocco

Coordinatore trucco e parrucco
Raul Ivaldi

Scene costumi e attrezzeria
Fondazione Teatro Carlo Felice

Parrucche
Mario Audello

Sopratitoli a cura della
Fondazione Teatro Carlo Felice

L’opera in breve
di Ludovica Gelpi

La genesi della Bohème nacque quasi come una sfida tra due tra i più acclamati operisti di fine Ottocento: Ruggero Leoncavallo e Giacomo Puccini. Entrambi volevano scrivere un’opera tratta dal romanzo Scènes de la vie de bohème, di Henri Murger, pubblicato a puntate tra il 1845 e il 1848 e finalmente libero dai diritti d’autore. Puccini iniziò a lavorare alla sua Bohème nel 1893, insieme ai librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa (con i quali aveva già lavorato al suo primo successo, Manon Lescaut). A due anni di lavoro sul libretto, articolato in quattro quadri, seguirono circa otto mesi per ultimare la partitura. La bohème di Puccini venne rappresentata l’1 febbraio del 1896 al Teatro Regio di Torino, con la direzione di un giovane Arturo Toscanini, e dato l’enorme successo ottenuto, l’omonima opera del “rivale” Leoncavallo, che avrebbe debuttato nel maggio del 1897, venne presto dimenticata. In seguito Puccini introdusse alcune varianti, così da giungere nei mesi successivi alla première ad una acclamatissima versione definitiva – quella oggi diffusa.

Drammaturgia
Uno degli aspetti più accattivanti della Bohème è la sua ambientazione: la Parigi del 1830, una delle città più vivaci e stimolanti d’Europa, con la nascente cultura o sottocultura bohemienne, fatta di artisti scanzonati, per lo più poveri, ma uniti nella condivisione di un sogno fatto di estetica, ideali e avanguardia. I protagonisti della Bohème incarnano questo stile di vita: Rodolfo è un poeta – ma scrive anche articoli di giornale per sbarcare il lunario; allo stesso modo, il pittore Marcello arrotonda impiegandosi come ritrattista in un’osteria. Colline, il filosofo, è in un certo senso parodia di sé stesso, quando anziché riflettere sul senso dell’esistenza si presenta inalberato per la chiusura natalizia del banco dei pegni. Completa il gruppo un musicista, Schaunard, al quale non viene data una altrettanto fine caratterizzazione (nel romanzo di Murger il musicista è Rodolfo, forse Puccini attribuì al suo protagonista l’arte della poesia per scongiurare interpretazioni autobiografiche dell’opera). I due personaggi femminili sono antitetici, e a loro volta conoscono le difficoltà di una vita povera: Mimì vive sola in una soffitta, accanto ai bohemiens, e ricama fiori; Musetta conduce una vita dissoluta, passando da un facoltoso amante all’altro (il suo più sincero amore è Marcello). Accanto a loro si affaccenda per le strade di Parigi una varia e sfaccettata compagine umana fatta di studenti, borghesi, bottegai, venditori ambulanti, camerieri e sarte. L’unico antagonista è il funesto presagio che perseguita i protagonisti: la disillusione, la sottile e malcelata consapevolezza che arte e ideali non li salveranno. Le relazioni – amicizie fraterne, amori travolgenti e complicati – sono rappresentate nella loro commovente complessità e in un’instancabile alternanza tra la dimensione del gioco e della spensieratezza e la dimensione della disperazione. Mimì e Rodolfo si innamorano come potrebbero innamorarsi due ragazzini, ma sin dal principio la malattia di lei incombe, ed entrambi non possono che fingere la loro felicità, fino a che la finizione non si sgretola tra le loro mani. Marcello e Musetta cedono alla passione consapevoli sin dal primo istante delle loro profonde incompatibilità e dell’imminente e dolorosa fine. L’unione dei quattro amici si basa sulla goliardia, tutti loro prendono parte a una commedia, per sé e per gli altri, per nascondere il più lacerante e inconfessabile timore: il mondo li lascerà per sempre emarginati? Uno dei momenti più emblematici del contrasto tra le due dimensioni è il finale del terzo quadro, quando Mimì e Rodolfo affrontano apertamente i loro problemi di coppia. Sanno che la loro storia è giunta alla fine e ancora una volta fingono: lasciarsi in inverno è crudele, «Ci lasceremo nella stagion dei fior».

Musica
Singolare esempio dell’innato talento melodico di Puccini, La bohème è un titolo che racchiude diverse influenze musicali, dal melodramma al romanticismo tedesco, da Wagner all’ultimo Verdi, e ancora dall’opéra-lyrique alla romanza da salotto. La ricca amalgama di timbri, ritmi, dinamiche e colori è impiegata sapientemente per ricreare in musica l’ambientazione dell’opera in tutti i suoi dettagli, secondo un descrittivismo minuzioso che esplora tanto gli aspetti ambientali quanto quelli psicologici. Il rapporto tra musica e testo cantato è di simbiosi totale, le linee melodiche prendono forma con le parole, e viceversa (ciò rende ancora più chiaro il perché della lunga gestazione del libretto, e naturalmente la vincente sinergia tra Puccini, Illica e Giacosa). L’omogeneità drammaturgica e musicale nella rappresentazione psicologica del quotidiano raggiunge nella Bohème un livello di grandissima innovazione, soprattutto considerando il panorama italiano di fine Ottocento. Nessuna suddivisione in scene scandisce l’azione, il discorso musicale scorre senza soluzione dall’inizio alla fine di ciascun quadro, delineando quattro scene uniche quasi autonome e compiute nella narrazione. Ciò nonostante, il discorso musicale si mantiene coeso. Fondamentale a questo proposito è la complessa trama di motivi ricorrenti, veri e propri Leitmotiv, a simboleggiare elementi, personaggi e affetti, fino a suggerire all’ascoltatore ciò che non viene detto o rappresentato (sono quindi presenti, tra gli altri, il motivo della vita bohémienne, il motivo di Mimì e Rodolfo, quello della serata di festa al Caffè Momus). A questo aspetto si lega un elemento che tornerà in diversi lavori della maturità del compositore, ovvero la “reminiscenza”, esplicita nel dialogo tra Mimì e Rodolfo: «Sono andati? Fingevo di dormire». Nell’ultimo istante di vita di Mimì, i due innamorati ricordano i momenti trascorsi insieme, alla memoria “drammaturgica” si unisce quella musicale, tornano così nella parte orchestrale e nelle linee vocali i temi centrali della loro storia, in particolare «Sì, mi chiamano Mimì» e «Che gelida manina», con sottili variazioni di tonalità e di modo a segnalare il doloroso insieme di affetti: dolcezza e disperazione.

Tre capricci
di Michele Mari

Il grande camino, spento
Il grande camino, spento, viveva in ozio come un gran signore. Pensava con gratitudine alle immense foreste lontane, che da lungo tempo non gli facevano avere il suo tributo: stupide foreste, come se per lui dover far fuori ciocchi di legna non fosse una seccatura. Stava molto meglio così, nel gelo, senza doversi preoccupare di quel patetico rituale delle fiamme e delle braci, dove l’uomo, aveva sentito dire senza capirci nulla, dove l’uomo è fascina e la donna alare. Ultimamente, però, qualche scimunito aveva pensato di sacrificargli una sedia, e un altro, addirittura, gli aveva gettato nelle fauci quattro atti di un dramma: per non parlare del pittore che stava per gettarvi dentro una sua orribile crosta intitolata Il Mar Rosso. Poi, l’imprevedibile oltraggio: un tale di nome Schaunard aveva fatto recapitare della legna a quegli scioperati, i quali però, anziché consolarsi a un bel fuoco, avevano deciso di uscire per cenare al ristorante, indotti, paradossalmente, dal loro stesso soccorritore («Pranzare in casa / il dì  della vigilia / mentre il quartier latino le sue vie / addobba di salsicce e leccornie?»): non prima però che nei loro discorsi fosse comparsa una figura surreale: una donna-quercia (un cannone: non dico una balena o un mappamondo).
Cosa vede, poi, il nostro camino? Vede il poeta trattenersi per concludere un articolo che non concluderà, e assiste quindi a un balletto di tre lumi, due nella stanza e uno all’esterno: dei due, uno viene spento dal poeta per economia, mentre quello all’esterno è spento da un refolo: accorso a riaccenderlo per mezzo del lume superstite, il poeta farà spegnere anche quest’ultimo con il suo stesso movimento: stanza e pianerottolo rimangono dunque al buio, dove si cela una chiave caduta per terra, una chiave che, trovata, si fingerà non trovata, per il divertimento del grande camino che studia gli umani e i loro goffi sotterfugi. Il poeta è povero, naturalmente, ma quanto alle rime ne sciala da gran signore: anzi ha l’anima milionaria, tanto che «talor dal suo forziere / ruban tutti i gioielli / due ladri: gli occhi belli». Il buio autorizza l’idea che la proprietaria della chiave abbia precisamente occhi di questo tipo, anche se, subito, il camino prende nota di elementi sospetti: ella vive di fiori e fra i fiori, ma quei fiori son falsi; ella si chiama Lucia ma viene chiamata Mimì, e non sa dire il perché…
Via ora, al Quartiere Latino! E vini del Reno e salami e arrosti di cervo e tacchino, e aragoste, e arance, datteri, prugne, castagne, carote, e latte di cocco e panna montata, caramelle, torroni, crostate, e poi: ninnoli, cuffiette, vezzi di corallo, croci, spillette, e ancora: giubbe, corni, pipe, quindi: fringuelli, passeri, fiori, ma anche: cavallini, frustini, cannoni, trombe, tamburi e tamburelli, e finalmente: una rarissima grammatica runica…
Dopo l’orgia, un salto in avanti: Mimì è ripudiata dal poeta, che si finge geloso: in realtà la colpa è del camino, che, tanto grande quanto vuoto e freddo, non può sciogliere il gelo di morte che insidia la fanciulla: «La mia stanza è una tana / squallida… il fuoco ho spento. V’entra e l’aggira il vento / di tramontana». Nella desolazione, nota l’incolpevole camino, l’umanità lascia il passo alle cose: un cerchietto, un libro di preghiere, un grembiale e una cuffietta, questo è Mimi; una penna («infame»), un pennello (altrettanto «infame»), questo sono il poeta e il pittore; e un’aringa («Scelga, o barone: / trota o salmone?») rimane un’aringa, l’acqua («Or lo sciampagna») rimane acqua. Nella mente dello spettatore rimangono impressi tre oggetti: un manicotto, fantasticato soccorso, una vecchia zimarra impegnata al Monte di Pietà, e una sedia, una delle poche non sacrificate al camino, che per un attimo, forse, si commuove.

Valzer delle sedie
Sono la prima sedia, sul punto di essere sacrificata alle fiamme: mi salva, inopinatamente, un testo poetico di un aspirante poeta di nome Rodolfo, testo, se ne ricava, che doveva essere ben brutto. Poco dopo corro di nuovo il rischio, come tocca periodicamente a noi vili elementi d’arredo.
Sono la seconda sedia: vengo offerta a un certo Benoît e ne sopporto volentieri il gravame.
Sono la terza sedia: davanti a una bottega il venditore mi sale sopra per magnificar la sua merce.
Siamo altre sedie: agli ordini di tre figuri chiamati Colline, Schaunard e Marcello, un cameriere ci porta nel dehors di Momus.
Sono la quarta sedia: vedendo arrivare la fatale Musetta, Marcello mi si accascia sopra.
Sono la quinta sedia, al tavolo vicino nello stesso dehors: Musetta mi impone un tomo ridicolo, Alcindoro.
Sono sempre la quarta sedia, su cui Marcello, smaniando di gelosia per Musetta, vuole farsi legare, il pazzo!
Sono la sesta sedia, predisposta a ricevere Alcindoro, che scoprendo di dover pagare il conto per tutti mi crolla sopra, inverecondamente.
Sono di nuovo la prima sedia, o forse la seconda: Schaunard mi sale sopra con le scarpe inzaccherate per brindare teatralmente, ma per mia fortuna viene subito fatto scendere.
Sono una panca, nel cabaret dove Rodolfo si è addormentato.
Sono la settima sedia, ma per la mia forma slargata mi chiamano scranna: è su di me che si accomoda Rodolfo accanto alla sua bella morente, che mi dicono chiamarsi Mimì.
Sono sempre la prima sedia, o forse sempre la seconda: Rodolfo mi sale sopra per schermare con una mantiglia la luce dell’abbaino.
Sono una sedia, non importa quale (potremmo infatti dire: la sedia): su di me, morta Mimì, si accascia Schaunard, e tutto ha fine.
E noi? Noi siamo le sedie imbottite del teatro, siamo tante, tantissime, e per tutto lo spettacolo ciascuna di noi ha sorretto uno spettatore divertito, annoiato, appassionato, distratto, competente, incompetente, deliziato, irritato, commosso: come le terga, senza possibilità di errore, rivelano.

Eros di Musetta
Musetta non ha un viso, ha un muso (per quanto grazioso): è dunque una bestia. Affascinante, ma bestia; affascinante in quanto bestia.
Il suo cuore, teste Marcello, non è un cuore: è una gran ghiacciaia.
Sempre Marcello: «Per sua vocazione / fa la rosa dei venti; gira e muta soventi / e d’amanti e d’amore. / E come la civetta / è uccello sanguinario; / il suo cibo ordinario / è il cuore… Mangia il cuore!» E dopo averle dato altre tre volte della civetta, non pago, la epiteta come vipera, quindi come strega.
Basterebbe questo a farne una dominatrice sadica, sogno nascosto di tanti. Ma i signori Illica e Giacosa hanno voluto spingersi ancora più là, ed ecco dunque la scena più memorabile dell’opera, il trionfo del fetish un secolo prima che la categoria si definisse:

Musetta (simulando un forte dolore ad un piede, va di nuovo a sedersi)  –  Ahi!
Alcindoro   –   Che c’è?
Musetta   –  Qual dolore, qual bruciore!
Alcindoro   – Dove?  (si china per slacciare la scarpa a Musetta)
Musetta (mostrando il piede con civetteria)  –  Al piè!
Sciogli, slaccia, rompi, straccia!
Te ne imploro…
Laggiù c’è un calzolaio.
Corri presto!
Ne voglio un altro paio.
Ahi! che fitta,
maledetta scarpa stretta!
Or la levo… (si leva la scarpa e la pone sul tavolo)
Eccola qua.

Contro questa caviglia, contro questo piede civettuolo, cosa può la gelida manina di Mimì? Nulla, si direbbe. Ma l’arte (l’arte!), il bello che tanto ci sublima, dissente, e ci costringe a rispondere: tutto.

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